Juanita de Paola

Il mercatino dell’abbigliamento usato di Prato, nascosto fra i capannoni cinesi, è pieno di vestiti di seconda mano di una bellezza unica: copricorpo leggeri con fiorellini e cuciture a vista, giacche consunte di pelle con le spalle strette, pantaloni con il cavallo bassissimo e forma così, alla meno peggio, borsette con chiusure troppo importanti. Ci ho trovato un vestito color carne con le gale di lato, uso serata di liscio, che metto sui jeans quando sono di buon umore. I pantaloni che metto hanno rigorosamente la pancia elasticizzata, per non soffrire quando mi siedo – e io mi siedo sempre.

La via per arrivare al capannone dell’usato è segreta, ci vuole un Caronte che ti ci porti anche dopo anni che ci vai: cambia posizione, come le cose nelle mappe di Tolkien. Il premio, se si arriva, è un bottino non indifferente: vestiti a chili, per pochi euro. Vanno lavati, certo, mi sento di doverlo dire per quanto a me non importi assolutamente nulla che siano appartenuti ad altri, ma la gente fa delle facce strane quando racconto di questo posto.

Il capannone dà una misura di passato, presente e futuro e siccome per la maggior parte degli uomini l’esperienza è come i fanali di poppa di una nave, che illuminano solamente quello che ci lasciamo alle spalle (che è esattamente il titolo di questo post), un luogo così ha tutto un senso profondo. Importante. Si vedono arrivare tipe con macchinate di pellicce, che rendono un tot al chilo, come le prugne. Dove le trovano, mi chiedo, le pigliano dalle amiche o a suo tempo ci hanno speso un capitale? In ogni caso nel capannone caso stanno in fondo, vicino ai vestiti di carnevale.